Costruire mondi: opinioni a confronto


Ultimamente con i Fabbricastorie stiamo lavorando molto sulla creazione di mondi, un tema che accomuna tanti che lavorano sulle narrazioni, che siano giocatori, scrittori o semplici lettori. Girovagando per la rete mi sono imbattuto in questo articolo sul tema, che mi è sembrato interessante e che perciò ho tradotto. L’articolo, originariamente intitolato The building of words, è stato pubblicato originariamente sul sito di formazione online per scrittori Lit reactor.

La costruzione dei mondi

di Rajan Khanna

La narrativa fantasy, così come la fantascienza sua parente, per avere successo dipende spesso dalla costruzione d un mondo. Un racconto contemporaneo che si svolge nel nostro mondo per costruire le sue fondamenta dipende dalla nostra percezione di essere vivi in questo presente. Ma i mondi secondari spesso richiedono una spiegazione – che sia come si è sviluppata una particolare vicenda storica, che tipo di creature esistono nel mondo, quali sono le regole della fsica, se esiste la magia e come funziona, e così via e così via.

Le opinioni sulla costruzione dei mondi differiscono fra gli scrittori e i gusti in materia variano fra i lettori. Alcuni in entrambi i campi chiedono mondi dettagliati e pensati in prfondità, con storie e mappe e magari anche le lingue. Altri la vedono come una cosa ingombrante e macchinosa e come una debolezza della storia complessiva. Ma in generale una qualche forma di costruzione del mondo è necessaria. Che sia il mondo magico di Harry Potter o il Westeros di George R.R. Martin, la maggior parte dei lettori di fantasy chiederanno che i loro mondi fantastici abbiano un qualche senso compiuto. I lettori, specialmente i lettori di fantasy, si asettano che i mondi secondari siano stati ben progettati e avranno delle domande per voi se avete trascurato inavvertitamente qualcosa.

Nel primo angolo: l’Architetto

Uno dei migliori esempi di costruzione onnicomprensiva del mondo non può che essere J.R.R. Tolkien. Non solo Tolkien ha sviluppato per la Terra di Mezzo un’ampia storia che attraversa i secoli, ma ha creato una vera e propria ligua (l’Elfico) per il suo mondo. In realtà fu la lingua che giune per prima, facendo intravedere un mondo nel quale potesse essere collocata.

Il successo di Tolkien può essere considerato una conseguenza della sua dettagliata costruzione del mondo. Le sue storie evocano un altro mondo con così tanti dettagli che le persone vi si immergono completamente. Farne un film deve essere stato un procedimento facile, dato che ogni volta che volevano deviare dall trama del romanzo c’era così tanto materiale di contorno che si poteva usare per inserire scene aggiuntive.

Sonos tati scritti libri rigardo al livello di dettaglio nei mondi di Tolkien, guide per dissezionare tutte le informazioni da lui radunate. Il suo lavoro sulla Terra di Mezzo è come un grattacielo. Puoi eliminare via via i pezzi e vedere al di sotto la struttura di supporto che regge la storia, travi e rivetti che tengono in posizione il tutto. E a giudicare dal successo dell’opera di Tolkien e dal suo effetto sul genere, certo sembra una buona cosa.

Ma lo è?

Nell’angolo opposto: il Pistolero

Alcuni anni fa John Harrison, l’autore delle storie di Viriconium, causò un brivido nell’ambito della fantascienza e fantasy col criticare questo stile di creazione di mondi. Questo è ciò che disse (archiviato qui)

Ogni momento di un racconto di fantascienza deve rappresentare il trionfo della scrittura sull’ambientazione.

La definizione del mondo è ottusa. La definizione del mondo prende alla lettera l’ansia interiore di inventare. La definizione del mondo rilascia un permesso non necessario agli atti di scrittura (addirittura, agli atti di lettura). La definizione del mondo ottunde la capacità del lettore di soddisfare la sua parte del baratto, perché sostiene che deve fare tutto da quese parti perché una qualsiasi cosa possa essere fatta.

Soprattutto, la deifnizione del mondo non è gtacncamente necessaria. È il grande piede oppressivo del nerdismo. È il tentativo di censire fino in fondo un luogo che non c’è. Un bravo scrittore non lo farebbe mai, neanche con un posto che c’è. Non è possibile, e anche se lo fosse il risultato non sarebbe leggibile: il risultato non sarebbe un libro ma la più grande enciclopedia mai costruita, un luogo consacrato di dedizione e di studio lungo una vita. Questo ci dà un indizio sulla tipologia psicologica del costruttore di mondi e della sua vittima, e ci spaventa non poco».

Tutto ciò offese un sacco di gente e io stesso devo ammettere che la mia prima reazione fu di mettermi sulla difensiva. Come scrittore, creo mondi. Posso non vergare pagine e pagine di dettagli su di loro come quando ero più giovane e decisi di creare il mio propio mondo per Dungeons & Dragons, ma io sono un costruttore.

Ma dopo averlo riletto penso di capire quale sia il punto di Harrison. Si sta battendo contro il voler definire ogni cosa, contro l’inserire tutti i dettagli. E sis ta battendo contro il fatto che lo scrittore abbia il controllo completo. La scrittura diviene piatta quando non coinvolge il lettore. Io sosterrei che che la migliore scrittura lascia spazio al lettore perché usi la sua intelligenza. Più è eccessiva la definizione del mondo, meno spazi ci sono perché il lettore svolga il suo compito.

Per fare un esempio semplice: supponiamo che uno scrittore stia descrivendo un tavolo. Non un tavolo magico. Non l’Unico Tavolo del Potere. Solo una tavola in casa di un personaggio. Lo scrittore potrebbe scendere molto nel dettaglio, fornendo l’altezza del tavolo, la sua composizione, la superficie, il colore, l’odore, il peso. Ma è necessario? Tutti questi particolari si intromettono fra il lettore e e il suo immaginare il tavolo. Talvolta il compito dello scrittore è evitare di intromettersi.

Naturalmente chiamarlo semplicemente “tavolo” è debole. Ma indicarlo come un tavolo logoro o tavolo di legno o un tavolo di vetro splendente o qualcosa del genere fornisce giusto il tanto per coinvolgere i lettori. A loro di riempire gli spazi vuoti.

La costruzione di mondi è qualcosa del genere. O almeno questo è ciò che Harrison sembra suggerire.

Harrison in seguito insiste, nei commenti al suo articolo originale, per dire:

«Quando uso l’espressione “narrativa di definizione di mondi” (“worldbuilding fiction” nell’originale, NdRufus) faccio riferimento a una narrativa di tipo immersivo, in cui ci si sforza di razionalizzare il racconto fornendogli ampie fondamenta o rendendolo “logico secondo le proprie regole”, così che esso diviene meno un atto di immaginazione quanto la sua resa in termini letterali. Si usano tecniche di rappresentazione per validare l’invenzione, con l’idea di fornire una creazione secondaria che il lettore possa “abitare”; ma anche, in un certo senso, come una scusa o un alibi per il fatto di inventare le cose, come se si dovesse legittimare un’attività per altri versi discutibile. Questo genere di costruzione di mondi in realtà mina il migliore e più eccitante aspetto della narrativa fantasy, subordinando l’incontrollato, l’intuitivo e l’autenticamente immaginativo a ciò che deve essere spiegato; e rimpiazzando la logica psicologica, poetica o emozionale con la razionalità del fasullo».

Trovo questa parte anche più affascinante della citazione precedente, specialmente il riferimento all’immaginazione come a una “attività discutibile”. Non so dire onestamente come mi senta al riguardo, ma sicuramente mi fa pensare.

Questo saggio fu più tardi commentato da China Mieville in un articolo su SF Signal. Come ho avuto modo di far notare in precedenza, Mieville si è impegnato in alcune operazioni veramente interessanti di costruzione di mondi, in particolare nei suoi libri su Bas-Lag, e apparentemente ha mappato una larga parte del mondo in note. Ma è più un allievo di Harrson (lo menziona come fonte di ispirazione) che di Tolkien. Mieville dice:

«In effetti, già che stiamo parlando di suggerimenti di Harrison, io penso che una delle cose più fruttuose che chiunque sia interessato alla costruzione di modi può fare è quella di andare direttamente alla sua ora famosa, e magnifica, polemica sull’intero progetto, qui, e leggerla e rileggerla e farsi mettere in crisi da quella. Non che dobbiate essere d’accordo, ovviamente (sebbene possiate). Ma io penso che piuttosto che iniziare con quel tipo di accusa petulante con cui quel brano fu accolto quando venne fuori, ci farebbe un gran bene – specialmente a quelli di noi sufficientemente fortunati da guardare in basso e vedere il bersaglio sui nostri petti e guardare in alto e vedere uno dei più importanti, selvaggi e intelligenti (anti)fantasisti del tempo recente puntare su di noi la canna del suo fucile di disprezzo – iniziare dalla presunzione non che sia in errore ma provare a immaginare come e perché potrebbe avere ragione. Perché la “coerenza interiore” di un mondo dovrebbe avere importanza per noi? Che significato avrebbe, addirittura? Come possiamo mappare ogni angolo di un luogo che non esiste? Perché lo vogliamo fare? Perché diventiamo così ansiosi quando gli scrittori contraddicono le prescrizioni del proprio canone? Che succede? Che tipo di pulsioni sono, queste? Di nuovo, niente di tutto ciò presume che la sola via onorevole sia necessariamente quella di buttare all’aria il progetto – ma può essere solo il prepararsi all’impatto di costringerci a pensarci su, qualunque sia la nostra direzione finale, perché questo ci costringerà a pensare a quel che stiamo facendo, o dovremmo fare. Che è narrativa di finzione, che è, dovremmo sperare, letteratura».

Ancora una volta, dopo un attimo di riflessione trovai il brano di Mieville stimolante, così come lo era il suo obiettivo. Io penso che gli scrittori fantasy spesso si trovino a essere abituati a creare questi mondi e a disegnarne la mappa e che il tutto divenga questa parte prevista del creare il mondo. Ma è necessario? Si fermano a pensare cosa questo significhi? Se li sta aiutando a servire la storia? O si sta solo presumendo che gli serva.

La parte sulle «prescrizioni del canone» è quella per me più interessante. Io sono qualcuno che si irrita quando si viola la continuity. Ma importa? O piuttosto: importa per tutte le storie? Io penso, specialmente come scrittore, che queste domande siano importanti, e che possano potenzialmente condurci a scrivere meglio.

Harrison in seguito ebbe a dire (da April di quest’anno):

«Io non sono contro la costruzione di mondi…

… sulla base del fatto che intralci la narrazione. Niente di ciò che ho detto ha qualcosa a che fare con costruzione di mondi contro narrativa. Il fantasy basato sulla costruzione di mondi è ultra-ingegnerizzato e sotto-progettato. Qualunque cosa il termine worldbuilding implichi in quel contesto non è agilità o sintesi di espressione. Un mondo può essere costruito in una frase, ma la fantasy epica non vuole questo. Contemporaneamente, non è davvero ampia o capiente, come Pynchon o Gunter Grass. Non ha V. Non ha Anni di cani. Non ha David Foster Wallace. Non è un genere generoso. Le stesse poche culture e brani di storia rubati, gli stessi pochi ecosistemi, le stesse poche idee sulle cose. È un grande sacco ma dentro non c’è molto. Con snellezza, scrittura sintetica, una buona progettazione, compressione e uso di materiali moderni, lo potresti riempire di roba. Potresti davvero costruire un mondo.Ma nonostante tutte le chiacchiere, questo non è ciò che la fantasy vuole. Vuole scappare da un mondo. Questo».

Ancora una volta Harrison è provocatorio, all’attacco del genere e dei suoi scopi. E qui è chiaro che sta parlando principalmente della fantasy epica. Ma quanto dice è fondato? Io dico di si. Un sacco di fantasy epica riguarda l’evasione. Un sacco di fantasy epica potrebbe essere più snella, più economica. Ma è la narrativa di evasione una cosa negativa? Qui io non sono d’accordo con lui. Io oenso che abbia il suo spazio. E non mi va di giudicare le persone per ciò che leggono. Tuttavia dirò che dopo ulteriore riflessione io sono contento che Harrison stia «puntando il suo fucile del disprezzo» al genere. Fare domande, pensare alle risposte, quello non è mai una cosa cattiva secondo il mio manuale. E se conduce a una narrativa migliore, bene allora ne valeva la pena.

La Via di Mezzo: il Giardiniere

There is an in-between, of course, a whole stretch of territory between the absolutes. It contains writers like George R. R. Martin. His profile in The New Yorker contains the following passage:

C’è un compromesso, naturalmente, un intera distesa di territorio fra gli assoluti. Contiene scrittori come George R.R. Martin. Il suo profilo sul New Yorker contiene il passo seguente:

«[Martin] pensa a se stesso come a un “giardiniere” – ha un’idea generale di dove si sta dirigendo ma improvvisa lungo la strada. Talvolta modella quel tanto del suo mondo immaginario che gli serve per avere un’ambientazione funzionante per la storia. Tolkien era ciò che Martin chiama un “architetto”. Tolkien creò intere lingue, mitologie e storie per la Terra di Mezzo molto prima di scrivere i romanzi che vi ambientò. Martin mi ha detto che molti dei suoi fan credono che lui sia un creatore di mondi meticoloso quanto Tolkien. «Mi scrivono per dirmi: “Sono affascinato dalle lingue. Vorrei intraprendere uno studio sull’Alto Valyriano”» – un antico linguaggio. «”Mi porebbe mandare un glossario e il dizionario e la sintassi?”. E io gli devo rispondere: “Ho inventato sette parole di Alto Valyriano”».

E questa è la posizione mediana. Crei quel tanto che è necessario per la storia. Nel caso di Martin è giusto sette parole invece che l’intera lingua. Ma questo rende il mondo di Martin meno reale di quello di Tolkien?

In un certo senso questo è barare perché è fantascienza, ma recentemente sono stato a una lettura pubblica nella quale Paolo Bacigalupi leggeva brani dal uo recente romanzo, The drowned cities, e qualcuno nel pubblico gli ha chiesto del mondo – quanta parte ne aveva creato, quanto ne sapeva di ciò che stava avvenendo altrove. La su risposta è stata che ciò che non è sulla pagina, lui non lo conosce. Non esiste. Sono i suoi mondi in qualche modo meno reali, meno immersivi?

The bottom line in writing is always, whatever works, as long as it works. For some, that involves extensive notes and figuring out the names of every person that lives in a town. For some that involves only knowing the one road in the kingdom that their characters are traveling. The question remains, where are the boundaries? They no doubt move from story to story, writer to writer. Reader to reader. I’d love to hear from you what you like best in worldbuilding. Who do you think are the best examples? And why do you think that is?

Il punto di base nella scrittura è sempre, qulunque cosa che funzioni, finché funziona. Per alcuni, questo richiede ampie annotazioni e definire il nome di ciascuna persona che vive in un città. Per alcuni questo comporta solo il conoscere qell’unica strada nel regno sulla quale i loro persoaggi viaggiano. Il problema rimane: dove stanno mi confini? Senza dubbio si spostano da storia a storia, da scrittore a scrittore. Da lettore a lettore. Mi piacerebbe sentire da voi ciò che ritenete sa meglio nella costruzione di mondi. Quali ritenete che siano gli esempi migliori? E perché pensate che lo siano?

Lascerò le parole di chiusura a J.R.R. Tolkien da una delle sue lettere, e poi a China Mieville dallo stesso articolo che ho citato in precedenza. Spero che vi daranno tanto da pensare quanto ne hanno dato a me:

«Parte dell’attrattiva del Signore degli Anelli è, credo, dovuta agli indizi di una più ampia storia sullo sfondo: un’attrattiva come quella di vedere da lontano un’isola sconosciuta, o vedere le torri di una città lontana splendere in una nebbia illuminata dal sole. Recarvicisi è distruggere la magia, a meo che nuvi panorami irraggiungibili non vengano di nuovo rivelati». – J. R. R. Tolkien

I mondi sono troppo grandi da costruire, o da conoscere, o anche, quasi, da viverci. Un mondo sarà sempre altrettanto condizionante per ciò che non fa che per quanto fa. Niente è più tediosamente rovinoso del senso di meraviglia che vivere in un mondo dovrebbe provocare che il doveroso spuntare località su una mappa. “Worldbuilding”, nella sua peggiore e più compulsiva accezione inesorabilmente comporta la banalizzazione di una totalità immaignaria. E quanto fottutamente deprimente può essere? Sicuramente noi vogliamo uno shock culturale, il che riguarda più il non capire che il capire. E possiamo ricevere shock culturali anche in casa. Da qui il momento migliore di sempre nella creazione di mondi, l’apertura di La città del lontanissimo futuro di M. John Harrison. «Più o meno diciassette imperio degni di nota sorsero nel Periodo di Mezzo della Terra. Queste erano le Culture del Meriggio. Tutte tranne una sono insignificanti per questo racconto, e c’è scarso bisongo di parlare di loro». Questo rifiuto di parlare è uno dei più terrificanti e fiduciosi momenti di terrore – aperte virgolette terrore-nella-costruzione-di-mondi chiuse virgolette di sempre». – China Mieville


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